“Riconobbi altri fra gli aggressori. Molto mi sorprese la presenza di un tale Fois di Cagliari. Costui era stato organizzatore dei lavoratori del mare, anarchico-sindacalista e antifascista,
aggredito e arrestato più volte dai fascisti. (…) Io mi chiedo ancora perché anch’egli quella sera, armato, esigesse il mio linciaggio.”
E. Lussu; “Marcia su Roma e dintorni”
Solo i morti e gli stupidi non cambiano mai opinione. L’apoftegma lowelliano si attaglia perfettamente allo stile di pensiero e azione di Antonio Pennacchi (Latina, 26 gennaio 1950; Latina 3 agosto 2021). L’autore di “Canale Mussolini”, infatti, non era certamente stupido. Ha trascorso decenni, infatti, a cambiare idea. O, se preferite, opinione politica. O, ancora, come dicono quelli che capiscono di queste cose, weltanschauung. La vita di Pennacchi è stata un lungo dentro e fuori, destra sinistra, avanti e indietro. Politicamente parlando e con la sublime disinvoltura del libero pensatore, ha trascorso gli ultimi 50 anni a cambiare idea. E di idee, come emerge con chiarezza dalle notevoli pagine del suo premo Strega 2010, Pennacchi ne ha davvero tantissime. Impegnato in un usa e getta compulsivamente ed ideologicamente interminabile, il Nostro è passato con invidiabile nonchalance (diz. Sabatini Coletti: “Ostentata indifferenza, disinteresse) dall’Msi del fucilatore razzista Giorgio Almirante, a “Servire il popolo”, organizzazione extraparlamentare vicina al cogito maoista tzedonghiano dei “ruggenti” anni Sessanta. Con supremo trasformismo, Pennacchi si fa sessantottino per accorrere, qualche tempo dopo, nei meandri del Psi craxiano insinuandosi, nulla interposita mora, tra i ranghi della Cgil dalla quale il Nostro viene espulso perché considerato troppo vicino alle Brigate rosse.
Siccome non è lowellianamente uno stupido, l’operaio dell’Alcatel di Latina decide qualche tempo dopo di passare armi e bagagli, nell’ordine: alla Uil, al Pci, di nuovo alla Cgil. Qui trova degli stupidi che per non voler cambiare idea, nel 1983 lo espellono nuovamente. E anche Pennacchi muta opinione (non che sia diventato stupido, questo no) abbandonando la “politica attiva” e si mette in proprio laureandosi in lettere e diventando scrittore. Scelta azzeccatissima poiché con tutta evidenza il Pennacchi romanziere è molto meglio del Pennacchi “libero pensatore” (le due condizioni sussistono spesso in posizioni non necessariamente coincidenti). Per lo meno in termini di coerenza. Infatti “Canale Mussolini” è un bell’esempio di narrativa legata alla storia con un esemplare movimento bottom up che legge le tormentate e tormentose vicende del fascismo e delle sue origini, in chiave ginzburghiana restando dunque saldamente ancorato agli eventi sociali e microsociali. Ben evidente, nel testo pennacchiano, è anche la lezione degli Annales di Febvre, Bloch e Pirenne con una vincolante multidisciplinarietà orientata soprattutto all’utilizzo degli strumenti interpretativi forniti dalla geografia sociale e dalla sociologia. Almeno nelle intenzioni.
Ecco, dunque, un accattivante romanzo storico, attraverso il “secolo breve” e il ventennio più lungo della nostra storia, nel quale si agitano le vicende di una piccola dinastia di immigranti venetopontini. La storia dei Peruzzi procede di pari passo con quella dell’impero mussoliniano, della conquista delle colonie in A.O., con i primi conati di revanscismo reducista partorito dalla “vittoria mutilata”, in una lettura storica sempre accattivante e ben sostenuta da una prosa agile e arguta. I personaggi che popolano le sponde del canale Mussolini sono ottenuti con un pregevole lavoro di sbalzo, stavo per dire “vitaliano” (da Andrea Vitali, l’autore più amato fra le due sponde del Lario). Ma in Pennacchi la leggera trasparenza della signorina Ortelia, gli esili guazzi delle atmosfere lacustri, i sottili acquerelli del paesaggio pedemontano si fanno tragica, sanguigna, spesso grottesca, fatica di vivere, fatica di morire. Pennacchi riesce sempre a legare strettamente eventi personali e vicende storiche non solo nazionali rivelando aspetti spesso politicamente scorretti della politica italiana a cavallo di due secoli.
Ma il “libero pensatore” è duro a morire. Dalle ragioni dei coloni agropontini nascono, in sostanziale acriticità, quelle del regime perché, mentre inocula il plasmodium malariae, anche la zanzara anofele, “gàla le so razòn”. Versione pennacchiana del trito e stupidamente dilagante “anche Lui ha fatto cose buone”. Diventa dunque inevitabile che l’equilibrio nella valutazione dei fatti storici si trasformi in puro equilibrismo: “…e oramai era lotta a coltello, con sparatorie, incendi, morti e feriti. Rossi di qua e neri di là”. Ecco fatto. Il fascismo nasce dalle ragioni della zanzara. Non ci sono buoni, non ci sono cattivi. Solo rossi e neri. Considerazione cristallizzata nel più moderno motto, ubiquamente destrorso: “tutti i morti sono uguali.” Ovvietà grezza e spensierata che non afferra (non può farlo) la profonda diversità delle ragioni custodite dai sepolcri.
Si capisce quindi che eventi tragicamente imbarazzanti come la nascita della RSI e gli orrori repubblichini, nelle peraltro piacevoli righe del Nostro, non trovino quasi spazio poiché, spiega l’autore, tutti hanno le loro ragioni insieme ai loro torti. Tutti identici, vincitori e vinti, vittime e carnefici, uomini e zanzare. Il libero pensatore in realtà non è mai morto e lotta insieme a loro. Le zanzare.
ELIO SPADA