La tragica storia di Fausta Finzi nel Lager di Ravensbruck

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Per moltissimi anni aveva cercato di dimenticare, di non parlare con nessuno delle tragiche esperienze che aveva passato.
“Siamo due ex galeotti” gli aveva detto suo marito, anche lui incarcerato dagli Inglesi durante la Seconda Guerra Mondiale, catturato in Africa dalla Royal Army.
“Cosa vuoi metterti a ricordare ciò che deve essere sepolto nel nostro passato !”

Poi invece, nel 2002, l’incontro con Federico Bario, a una Mostra di pittura a Lecco. Federico rimane colpito da quella donna, Fausta Finzi, che fa un accenno alla sua reclusione per quasi un anno nel Lager di Ravensbruk, “L’Inferno delle donne“.
Decide quindi di approfondire: viene a sapere che quella donna di ormai 80 anni (nata nel 1920) abita a Vimercate, nella Brianza milanese, e da allora la va a trovare sempre più spesso .

“Per lei è stata come una liberazione, togliersi un grosso peso dal cuore” . La scrittura è un mezzo di rigenerazione e di rielaborazione da un destino che ti cambia per sempre e che non potrai mai allontanare.

Ne nascono due libri: il primo “Varcare la soglia“, che ha una distribuzione limitata , a Lecco e a Milano, e il secondo invece “A riveder le Stelle“, pubblicato alla fine del 2005 da una casa editrice importante come la Gaspari di Udine, che è disponibile ancora oggi.

Nel suo racconto la Finzi parte dagli inizi: suo padre, ufficiale dell’esercito italiano nella I Guerra Mondiale, Capitano, combatte con valore e riceve delle medaglie.
Una famiglia della media borghesia milanese, impiegato di Banca, appartamento in Via Pisano, vicino al Centro (zona San Babila).

Però aveva una colpa imperdonabile, agli occhi dei Fascisti, e cioè era Ebreo, anche se non praticante: “andava in Sinagoga una volta ogni sei mesi, solo una volta aveva comprato una “Menorah” (candelabro a sette braccia), ma non era certo religioso” diceva la figlia.

Con le leggi razziali del 1938 deve abbandonare il lavoro, per mantenere la famiglia con la liquidazione della Banca acquista una ditta di vernici da un altro Ebreo , che giustamente poco fiducioso della situazione che si stava creando, aveva deciso di abbandonare l’Italia, e per qualche anno vi lavora anche la figlia.

Fino a che nell’aprile del 1944 i nazifascisti portano padre e figlia (la madre no perché era cattolica) prima nel carcere di San Vittore, poi nel campo di Fossoli.
La madre cerca di salvare il marito, attestando i suoi meriti di guerra (meritava una “discriminazione”, cioè il non essere trattato come Ebreo) ma a suo svantaggio gioca il fatto decisivo di non essere mai stato iscritto al Partito Nazionale Fascista.

Da Fossoli in poi quindi la loro discesa nell’Inferno: padre e figlia vengono separati, lei va appunto a Ravensbruck, lui andrà ad Auschwitz, dove dopo pochi giorni dal suo arrivo troverà la camera a gas (ma la figlia lo verrà a sapere solo dopo diversi anni).

Insomma una vicenda tragica che la Finzi descrive con oggettività e realismo, in un diario quasi giornaliero che lei scrive su un blocchetto di appunti, e che colpisce per la sua cruda veridicità.
La salvano la sua estrema volontà di sopravvivenza, la sua determinazione, ma anche la sua amicizia e la solidarietà con un gruppo di donne detenute che sempre le rimangono vicino, e che ritroverà molti anni dopo in una famosa trasmissione di Enzo Tortora, “Portobello” , in cui il conduttore riunisce per l’ultima volta le sei donne che insieme hanno passato questa terribile esperienza.

Insomma un libro da leggere e su cui meditare: l’UniTre Valsassina ringrazia moltissimo Federico Bario sia per il suo contributo decisivo alla pubblicazione, sia per la disponibilità dimostrata ieri nell’illustrare ai soci questa vicenda, per commemorare anche noi la Giornata della Memoria.

Enrico Baroncelli

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