L’esemplare di Aconito nella foto è stato ripreso a quota 2000 metri, nei pressi della bocchetta di Camisolo nei pressi del rifugio Grassi. Non capita spesso di imbattersi in qualche esemplare di questa essenza vegetale nota fin dall’antichità più remota. Se incontrate i suoi splendidi fiori blu – viola fermatevi pure ad ammirarli ma non toccateli. Anzi è meglio se girate alla larga.
L’aconito, il cui nome derive forse dal greco akòniton (pianta velenosa) è una delle erbe più tossiche che si conoscano. Ne bastano infatti pochi milligrammi per uccidere un adulto sano. Inoltre non esiste alcun antidoto. Non siete convinti dell’estrema pericolosità di questa pianta? Allora ascoltate il Centro antiveleni dell’ospedale milanese di Niguarda a proposito dell’aconito: “A seguito di ingestione la sintomatologia compare rapidamente (10-20 minuti): formicolio alle dita delle mani e dei piedi seguito da sudorazione e brividi, parestesie generalizzate, secchezza della bocca e intorpidimento. Seguono alterazioni del ritmo cardiaco fino alla fibrillazione ventricolare e all’arresto respiratorio.”
Tutte le sue parti, fiori, gambo, foglie e radici contengono un alcaloide, l’aconitina, il cui principio attivo è in grado di produrre nausea, dolori addominali e arresto cardiaco. La pericolosità della tossina dell’aconito è pari a quella dell’amanita phalloides, anche se il meccanismo di azione è molto diverso. L’aconito affonda le sue radici, è il caso di dirlo, nella mitologia. Ercole, nel corso della sua dodicesima fatica, affrontò il mostruoso cane a tre teste Cerbero. Così spiega la vicenda il poeta latino Ovidio:
“E il cane, divincolandosi infuriato, riempì il cielo
Di tre latrati in una volta sola
E i verdi campi spruzzò di bianchiccia bava.
Questa, si pensa, si coagulò trovando alimento
Nel suolo fertile e fecondo,
ed erba divenne capace di avvelenare.” (Metamorfosi VII, 404-417)
Pare inoltre che il saggio centauro Chirone, precettore fra gli altri dell’eroe omerico Achille, sia stato ucciso proprio da una freccia intinta nel succo di napello, altro nome col quale è conosciuto l’aconito. Inoltre, secondo alcuni studiosi, Cleopatra potrebbe essersi tolta la vita con una pozione a base di aconito anche se la versione più accreditata fa riferimento al morso di un aspide. Nemmeno la letteratura moderna e contemporanea hanno trascurato la pianta velenosa per eccellenza. Shakespeare cita l’aconito in “Le sette giornate del mondo creato”, mentre Gabriele d’Annunzio dedica all’aconito alcuni versi dell’Undulina:
“Azzurre son l’ombre sul mare
Come sparti fiori d’aconito.
Il lor tremolio fa tremare
l’infinito al mio sguardo attonito.”
Infine non manca un riferimento al napellum neppure nella saga di J. K. Rowling, quando, nel primo libro, “Harry Potter e la pietra filosofale”, Severus Piton interroga il giovane “mezzosangue” aspirante mago su questa pianta nella sua prima lezione di pozioni.