L’essenza vegetale dai delicati fiorellini riprodotti nella foto è molto comune alle nostre latitudini, dalla pianura fino ai 1200/1300 metri di quota. Le sue pungenti e intricatissime colonie si incontrano lungo strade e mulattiere, ai margini dei boschi. Un tempo, le loro acuminate spine proteggevano prati e cascine dall’ingresso di ospiti indesiderati. Oggi a questo scopo si utilizzano soprattutto molto meno romantiche reti metalliche. Chiunque ne ha viste spesso in campagna sui bordi di fiumi, canali e rogge. Osservando le tenere corolle irte di esili stami che ricordano l’immagine di un puntaspilli, si fatica a riconoscere la pianta che, durante la tarda estate produce frutti succulenti grazie ai quali è possibile preparare gustose marmellate. Insomma, stiamo parlando, se non l’avete già capito, della mora di rovo, frutto ricco di proprietà e di utilizzi non solo culinari, molto simile al lampone, che però cresce a quote superiori alla cui famiglia appartiene.
La drupa, il frutto che nella prima fase di maturazione è rossastra, diventa di un bel nero lucido quando giunge a maturazione e contiene numerosi elementi nutritivi: soprattutto vitamina C ma anche magnesio, sodio, rame e così via. Per l’elevato contenuto di acido ascorbico (vitamina C) le more in passato venivano utilizzate contro lo scorbuto. L’uomo se ne ciba da almeno 2500 anni come dimostra una mummia femminile risalente all’Età del ferro, scoperta in una torbiera nello Jutland, in Danimarca, nel 1835. Nello stomaco furono scoperte tracce di more e di altri cibi. Anche la medicina antica si è occupata a lungo di more di rovo con le cui foglie, frutti e radici, gli antichi greci come i nativi americani, preparavano decotti digestivi che pare fossero anche in grado di alleviare i sintomi della pertosse. Dalle more è possibile ottenere vini e cordiali come accade ancora oggi in alcune regioni della Germania.