PAESI TUOI

Condividi l'articolo

“Una luna pesante, colore del caldo…” Una luna straziante che vede dall’alto ogni evento, ogni sospiro, ogni tragedia. Anche quelle minuscole che s’agitano tra le righe di uno degli autori più discussi del secondo Dopoguerra. Pavese, in particolare il primo Pavese, non più solo poeta né ancora affermato romanziere, non tollera approcci superficiali.

Non è facile capire perché scrive, lui. Perché si descrive, in queste pagine, perché si confessa con spudorata sincerità. Soprattutto, è sconcertante scoprire perché Pavese non piace a Pavese. Fra le righe di Paesi tuoi (1939) s’intravede uno spiraglio oscuro: nulla di ciò che è suo gli piace. Così l’io si allontana sempre più dal sé, dissolvendosi riga dopo riga. Quell’io che si identifica e si confonde con l’ondulazione dolce delle Langhe, dove si ergono la “collina che sembrava una mammella…” e “il capezzolo scuro di Monticello.” Con la campagna dalle stagioni crudeli, con l’agitarsi frenetico e infido degli uomini resi duri dalla terra, spietati come la terra. Un mondo immerso nelle brume gelide dell’anima. Che è l’anima del trentenne Pavese, agitata da incessanti moti browniani, da gorghi instancabili, da spire dalle quali appare impossibile sciogliersi.

Le donne dei “Paesi tuoi”, di tutte le altre opere di Pavese e della sua vita, sono tutte le donne: piangono per ridere e se ridono soffrono. Sono quelle che “…tanto non le so avvicinare”; (lettera all’amico Tullio Pinelli). E se le avvicina, loro, le donne, si allontanano rapidamente. Tutte le relazioni affettive dello scrittore finiscono male. Se le “sue” donne muoiono per mano d’uomo, tacciono senza rimproverare, senza condannare, perfettamente innocenti, perfettamente sacrificate. Come Gisella che, nelle ultime pagine di Paesi tuoi “…neanche i maiali resistono tanto”.

Nel primo romanzo di Pavese sembra non esistano personaggi. C’è un solo interprete. Vero e unico protagonista è l’autore che scrivendo di altri descrive sé stesso, attribuendo a ciascuno tratti che coincidono quasi sempre con quelli dell’ospite inquietante che dall’interno lo opprime. Anche Talino, l’animalesco Talino, è Pavese con la sua incapacità di amare e di odiare, di “vedere” gli altri. Lo spiegherà bene una figura femminile. Cate, che abita “La casa in collina” (1948) scritto dieci anni dopo, dirà a Corrado – Pavese come stanno davvero le cose: “Sei buono così, senza voglia…”. La sua bontà è svogliata perché non ci crede. Non crede nel sentimento, nell’amore. Non ne è capace. Venne definito “neorealista”. In realtà, fu soprattutto anaffettivo ma ferocemente autocritico. Ed è stato, sempre, ciascuno dei suoi personaggi. È stato anche il vecchio Vinverra, dal nome duro come il manico di un aratro. Vinverra impersona anche la cattiva coscienza del mondo e dello scrittore. Sa che il figlio, Talino, non è diverso da lui. È solo più stupido e porta dentro la morte. Dice, Vinverra, parole illuminanti quando uno dei bambini partoriti dalle mura stanche della cascina, fa cadere la nonna: “…invece di battere il ragazzo gli disse soltanto: «La nonna la deve ammazzare Talino»”. Lapide ed epitaffio sono pronti. Il futuro è già scritto. Ma non sarà la vecchia a morire.

Pavese produce sempre autoritratti. In “Paesi tuoi” è l’autore che scrive di sé su uno specchio. Parole e righe non riescono a celare, né lo vogliono, il volto e l’animo che vi si riflette. Lo scrittore si trafigge con acuminatissima autoanalisi. E i suoi personaggi, con significativa inversione, interpretano chi li ha creati. Dicono di lui ciò che l’autore non riesce a rivelare esplicitamente poiché si lascia alle spalle, sempre, qualche dolore, spesso qualche tragedia. Pavese interpreta e descrive la propria tremante umanità. Il testo è, in questo senso, una spietata confessione. Altre ne seguiranno.
La morte cruenta di Gisella è dunque opera di Talino – Pavese. Agisce, qui, una sorta di lavacro lustrale. Acqua e sangue, sangue come acqua elementi mitologicamente significativi che liberano l’autore (figura di Adamo) dalla colpa di un delitto che non ha commesso in prima persona ma del quale sarebbe capace se non temesse il proprio giudizio e quello degli altri. Si finge buono
perché teme la critica.

L’incestuoso Talino, sgozzando la sorella che in passato aveva violentato, compie l’orrendo rito sacrificale nel nome del Padre – Autore che agisce per interposta persona. C’è un Pavese cui non piace Pavese, che non lo sopporta, che non ama nulla di ciò che è l’altro sé. Sfibrato da una insopportabile tensione interiore lo scrittore vede lucidamente il suo “doppio” e ne è atterrito. Si capirà in seguito quanto tutto ciò fosse tragicamente vero. Per Pavese la salvezza dalla passività nevrotica è la scrittura. “La letteratura è una difesa contro le offese della vita” dice Pavese in una pagina del suo diario “Il mestiere di vivere”. Per l’autore di “Paesi tuoi” a vita è un lavoro. Labor: fatica dolorosa. La salvezza dalla vita può venire solo dalla morte. In questo lo scrittore sarà coerente fino alla fine.
“Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo, non a Tono, non a Cate, non so. (…) Perché sono il più inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo? E ancora: “essere vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta. (…) vivere per caso non è vivere.” Anche nella casa in collina verrà la morte.

La fine di Gisella cesserà di essere soltanto una rappresentazione – confessione diventando realtà, undici anni dopo, in una stanza d’albergo di Torino. Morendo volontariamente
Pavese si identificherà, per la prima ed unica volta, in uno dei suoi personaggi positivi. e affronterà, come ha scritto Alberto Asor Rosa “…un destino a cui non si sfugge”. Sadicamente masochista, Pavese è spietato con sé stesso ma non abbastanza per condannarsi a vivere. Lo sa da sempre e lo chiarisce con spietata lucidità: Scrive nel diario il 17 agosto 1950 “Non ho più nulla da desiderare su questa terra, tranne quella cosa che quindici anni di fallimenti ormai escludono. Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.” L’epilogo è annunciato il giorno successivo nelle ultime pagine del “Mestiere di vivere”: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”.

Otto giorni dopo, il 26 agosto 1950, Cesare Pavese si toglierà la vita in una stanza d’albergo di Torino, ingerendo barbiturici.
Era scritto da sempre nelle origini e sancito nell’esito: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Occhi di donna

Articoli correlati

La fiducia e la speranza

Condividi l'articolo

Condividi l'articolo             Credo davvero che l’incontro che abbiamo tenuto ieri in Comunità Montana per l’Università della Terza Età Valsassina, con Emanuele Campagna, sia stato uno dei più…

La preghiera di Luzi e gli occhi del dolore universale della capra di Saba

Condividi l'articolo

Condividi l'articolo             …chiudo gli occhi…odo una voce bassa, calma, che fa parlare le parole, le rispetta, sospira alle virgole e si ferma per un nano secondo ai…

Paolo d’Anna e i racconti della polenta all’Unitre-Valsassina

Condividi l'articolo

Condividi l'articolo             Giovedì 19 settembre 2019, presso la sede della Comunità Montana a Barzio, lo scrittore Paolo d’Anna ha presentato il suo libro: “I racconti della polenta”…

L’ambiente storico della “Monaca di Monza”

Condividi l'articolo

Condividi l'articolo             Anche se davanti a un pubblico molto limitato, molto interessante l’esposizione di Beppe Roncari del suo secondo volume “Engagged“, incentrato, sia pure in forma “fantasy”,…

Storia del Monastero di Cantello

Condividi l'articolo

Condividi l'articolo             “Nelle somità, vi è fabbricato un bel Monastero de R. Matri del ordine di santo Agostino et prima era un hospitale, poscia ridotta in Monastero.”…

In memoria dell’abate Antonio Stoppani, inaugurata mostra a Esino Lario

Condividi l'articolo

Condividi l'articolo             Il 6 Luglio 2024 presso il museo delle Grigne di Esino Lario, a cura del Cai Lecco e degli Amici del Museo, è stata inaugurata…